Per la vostra e la mia consolazione, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, questa meditazione sarà centrata tutta e solo su Dio. La teologia, cioè il discorso su Dio, non può rimanere estranea alla realtà del Sinodo, come non può rimanere estranea a ogni altro momento della vita della Chiesa. Senza la teologia, la fede diventerebbe facilmente morta ripetizione; mancherebbe dello strumento principale per la sua inculturazione.
Per assolvere questo compito, la teologia ha bisogno, essa stessa, di un rinnovamento profondo. Quello di cui il popolo di Dio ha bisogno è una teologia che non parli di Dio sempre e soltanto “in terza persona”, con categorie mutuate spesso dal sistema filosofico del momento, incomprensibili fuori della ristretta cerchia degli “iniziati”. È scritto che “il Verbo si è fatto carne”, ma in teologia, spesso il Verbo si è fatto solo idea! Karl Barth auspicava l’avvento di una teologia “capace di essere predicata”, ma questo auspicio mi sembra lontano dall’essersi ancora realizzato. San Paolo ha scritto:

Lo Spirito conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio…. I segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato (1 Cor 2, 10-12).
Ma dove trovare ormai una teologia che faccia leva sullo Spirito Santo, più che su categorie di sapienza umana, per conoscere “le profondità di Dio”? Bisogna, per questo, ricorrere a materie dette “opzionali”: alla “Teologia spirituale”, oppure alla “Teologia pastorale”. Henri de Lubac ha scritto: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. È, al contrario, l’insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta. Questo era vero della prima predicazione cristiana, quella degli apostoli, ed è vero ugualmente della predicazione di coloro che sono ad essi succeduti nella Chiesa: i Padri, i Dottori e i nostri Pastori nell’ora presente” .
Sono convinto che non c’è alcun contenuto della fede, per quanto elevato, che non possa essere reso comprensibile a ogni intelligenza aperta alla verità. Se c’è una cosa che possiamo imparare dai Padri della Chiesa è che si può essere profondi senza essere oscuri. San Gregorio Magno dice che la Sacra Scrittura è “semplice e profonda, come un fiume in cui, per così dire, un agnello può camminare e un elefante può nuotare” . La teologia dovrebbe ispirarsi a questo modello. Ognuno dovrebbe potervi trovare pane per i suoi denti: il semplice, il suo nutrimento e il dotto, cibo raffinato per il suo palato. Senza contare che spesso viene rivelato ai “piccoli” quello che rimane nascosto “ai sapienti e gli intelligenti”.

Ma chiedo scusa che sto tradendo la mia promessa iniziale. Non è un discorso sul rinnovamento della teologia che intendo fare in questa sede. Non avrei alcun titolo per farlo. Vorrei piuttosto mostrare come la teologia, intesa nel senso accennato, può contribuire a presentare in modo significativo il messaggio evangelico all’uomo d’oggi e a dare linfa nuova alla nostra fede e alla nostra preghiera.

La notizia più bella che la Chiesa ha il compito di far risuonare nel mondo, quella che ogni cuore umano attende di sentire, è: “Dio ti ama!” Questa certezza deve scardinare e sostituire quella che ci portiamo dentro da sempre: “Dio ti giudica!” La solenne affermazione di Giovanni: “Dio è amore” (1 Gv 4,8) deve accompagnare, come una nota di fondo, ogni annuncio cristiano, anche quando dovrà ricordare, come fa il Vangelo, le esigenze pratiche di questo amore.

Quando invochiamo lo Spirito Santo – anche nella presente occasione del Sinodo – noi pensiamo in primo luogo allo Spirito Santo come luce che ci illumina sulle situazioni e ci suggerisce le soluzioni giuste. Pensiamo meno allo Spirito Santo come amore; invece è questa la prima e più essenziale operazione dello Spirito di cui la Chiesa ha bisogno. Solo la carità edifica; la conoscenza – anche quella teologica, giuridica ed ecclesiastica – spesso non fa che gonfiare e dividere. Se ci domandiamo perché siamo così ansiosi di conoscere (e oggi, così eccitati alla prospettiva dell’intelligenza artificiale!) e così poco, invece, preoccupati di amare, la risposta è semplice: è che la conoscenza si traduce in potere, l’amore invece in servizio!
Lo stesso Henri de Lubac ha scritto: “Occorre che il mondo lo sappia: la rivelazione del Dio Amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito della divinità” . A tutt’oggi non abbiamo finito (né si finirà mai) di trarre tutte le conseguenze dalla rivoluzione evangelica su Dio come amore. In questa meditazione vorrei mostrare come, partendo dalla rivelazione di Dio come amore, si illuminano di luce nuova i principali misteri della nostra fede: la Trinità, l’Incarnazione e la Passione di Cristo e diventa meno difficile farli comprendere dalla gente. Quando san Paolo definisce i ministri di Cristo “dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1), intende questi misteri della fede, non si riferisce a dei riti e neppure in primo luogo ai sacramenti.

Perché la Trinità

Iniziamo dal mistero della Trinità: perché noi cristiani crediamo che Dio è uno e trino? Mi sono trovato più di una volta a predicare la parola di Dio a cristiani che vivono in paesi a maggioranza islamica, nei quali, tuttavia, c’è una relativa tolleranza e possibilità di dialogo, come avviene negli Emirati Arabi. Sono persone, per lo più immigrati, impiegati come mano d’opera. Essi mi hanno chiesto a volte cosa rispondere alla domanda che viene loro rivolta nei luoghi di lavoro: “Perché voi cristiani dite di essere dei monoteisti, se non credete in un Dio unico e solo?”
Dico cosa ho consigliato loro di rispondere, perché è la spiegazione che dovremmo dare a noi stessi e a chi ci interroga sullo stesso problema. Noi crediamo in un Dio uno e trino perché crediamo che Dio è amore. Ogni amore è amore di qualcuno, o di qualcosa; non si dà un amore a vuoto, senza oggetto, come non si dà conoscenza che non sia conoscenza di qualcuno o di qualcosa.
Orbene, chi ama Dio per essere definito amore? L’universo? L’umanità? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni, da quando cioè esiste l’universo fisico e l’umanità. Prima di allora chi amava Dio per essere l’amore, dal momento che Dio non può cambiare e cominciare ad essere ciò che in precedenza non era? I pensatori greci, concependo Dio soprattutto come “pensiero”, potevano rispondere, come fa Aristotele nella sua Metafisica: Dio pensava se stesso; era “puro pensiero”, “pensiero di pensiero” . Ma questo non è più possibile, nel momento in cui si dice che Dio è amore, perché il “puro amore di se stesso” sarebbe solo egoismo o narcisismo.
Ed ecco la risposta della rivelazione, definita nel concilio di Nicea del 325. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, “il Figlio unigenito” che amava con un amore infinito che è lo Spirito Santo.
Tutto questo non spiega come l’unità possa essere contemporaneamente trinità, mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in Dio. Ci aiuta però a intuire perché in Dio l’unità deve essere anche comunione e pluralità. Dio è amore: perciò è Trinità! Un Dio che fosse pura conoscenza o pura legge, o potere assoluto, non avrebbe certamente bisogno di essere trino. Questo anzi complicherebbe le cose. Nessun triumvirato e nessuna diarchia sono mai durati a lungo nella storia!
Anche i cristiani credono dunque nell’unità di Dio e sono perciò monoteisti; un’unità, però, non matematica e numerica, ma d’amore e di comunione. Se c’è qualcosa che l’esperienza dell’annuncio dimostra essere ancora capace di aiutare gli uomini d’oggi, se non a spiegare, almeno a farsi un’idea della Trinità, questo, ripeto, è proprio quello che fa perno sull’amore. Dio è “atto puro” e questo atto è un atto d’amore, dal quale emergono, simultaneamente e ab aeterno, un amante, un amato e l’amore che li unisce.

Il mistero dei misteri non è, a pensarci bene, la Trinità, ma capire cos’è in realtà l’amore! Essendo esso l’essenza stessa di Dio, non ci sarà dato di capire appieno cos’è l’amore neppure nella vita eterna. Ci sarà dato, tuttavia, qualcosa di meglio che conoscerlo, e cioè possederlo e saziarcene eternamente. Non si può abbracciare l’oceano, ma vi si può entrare dentro!

Perché l’incarnazione?

Passiamo all’altro grande mistero da credere e da annunciare al mondo: l’Incarnazione del Verbo. Alla luce della rivelazione di Dio come amore, anch’esso, vedremo, acquista una nuova dimensione. Domando perdono se in questa parte chiedo forse uno sforzo di attenzione superiore a quello che è lecito chiedere agli ascoltatori in una predica, ma credo che lo sforzo valga la pena di essere fatto almeno una volta in vita.
Ripartiamo dalla famosa domanda di sant’Anselmo (1033-1109): “Perché Dio si è fatto uomo?” Cur Deus homo? È nota la sua risposta. È perché solamente uno che fosse nello stesso tempo uomo e Dio poteva riscattarci dal peccato. Come uomo, infatti, egli poteva rappresentare tutta l’umanità e, come Dio, quello che faceva aveva un valore infinito, proporzionato al debito che l’uomo aveva contratto con Dio peccando.
La risposta di sant’Anselmo è perennemente valida, ma non è l’unica possibile, e neppure del tutto soddisfacente. Nel credo professiamo che il Figlio di Dio si è fatto carne “per noi uomini e per la nostra salvezza”, ma non si limita la nostra salvezza alla sola remissione dei peccati, tanto meno di un peccato particolare, quello originale. Resta spazio, dunque, per un approfondimento della fede.
È quello che cerca di fare il beato Duns Scoto (1265 – 1308). Dio – dice – si è fatto uomo perché questo era il progetto divino originario, anteriore alla stessa caduta: che, cioè, il mondo – creato “per mezzo di Cristo e in vista di lui” (Col 1, 16) – trovasse in lui, “nella pienezza dei tempi”, il suo coronamento e la sua ricapitolazione (Ef 1,10).
Dio, scrive Scoto, “anzitutto ama se stesso; poi “vuole essere amato da qualcuno che lo ami in grado sommo fuori di se stesso”; perciò “prevede l’unione con la natura che doveva amarlo in grado sommo”. Questo amante perfetto non poteva essere nessuna creatura, essendo finita, ma solo il Verbo eterno. Questi perciò si sarebbe incarnato “anche se nessuno avesse peccato” . Il peccato di Adamo non ha determinato il fatto stesso dell’incarnazione, ma solo la sua modalità di espiazione mediante la passione e la morte.
All’inizio di tutto c’è ancora, purtroppo, in Scoto, come si vede, un Dio da amare più che un Dio che ama. È un residuo della visione filosofica del Dio “motore immobile”, che può essere amato, ma non può amare. “Dio – aveva scritto Aristotele – muove il mondo in quanto è amato”, cioè in quanto oggetto d’amore, non in quando ama . In linea con la visione occidentale della Trinità, Scoto pone la natura divina, non la persona del Padre, all’inizio del discorso su Dio. E la natura, a differenza della persona, non è un soggetto che ama! In ciò i nostri fratelli ortodossi, eredi dei Padri greci, hanno visto più giusto di noi latini.
Su questo punto, la Scrittura ci chiama tutti, credo, a fare oggi un passo avanti, anche rispetto a Scoto, sempre consapevoli, tuttavia, che le nostre affermazioni su Dio altro non sono che labili segni tracciati col dito sulla superficie dell’oceano. Dio Padre decide l’incarnazione del Verbo non perché vuole avere fuori di sé qualcuno che lo ami in modo degno di sé, ma perché vuole avere fuori di sé qualcuno da amare in modo degno di sé! Non per ricevere amore, ma per effonderlo. Presentando Gesù al mondo, nel Battesimo e nella Trasfigurazione, il Padre celeste dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato” (Mc 1, 11; 9,7); non dice: “l’amante”, ma “l’amato”.
Solo il Padre, nella Trinità (e in tutto l’universo!), non ha bisogno di essere amato per esistere; ha bisogno soltanto di amare. Questo è ciò che garantisce il ruolo del Padre come fonte e origine unica della Trinità, mantenendo, nello stesso tempo, la perfetta uguaglianza di natura tra le tre divine persone. C’è, all’origine di tutto, la folgorante intuizione di Agostino e della scuola nata da lui. Essa definisce il Padre come l’amante, il Figlio come l’amato e lo Spirito Santo come l’amore che li unisce . In ciò anche noi Latini abbiamo qualcosa di prezioso e di essenziale da offrire per una sintesi ecumenica. Grazie a Dio, una piena riconciliazione tra le due teologie non sembra più tanto difficile e lontana, ciò che segnerebbe un passo avanti decisivo verso l’unità delle Chiese.

Perché la passione?

Veniamo ora al terzo grande mistero: la passione di Cristo che ci apprestiamo a celebrare a Pasqua. Vediamo come, partendo dalla rivelazione di Dio come amore, anch’esso si illumina di luce nuova. “Dalle sue piaghe siete stati guariti”: con queste parole, dette del Servo di Jahvè (Is 53, 5-6), la fede della Chiesa ha espresso il significato salvifico della morte di Cristo (1 Pt 2,24). Ma possono piaghe, croce e dolore – fatti negativi e, come tali, solo privazione di bene – produrre una realtà positiva qual è la salvezza di tutto il genere umano? La verità è che noi non siamo stati salvati dal dolore di Cristo, ma dal suo amore! Più precisamente, dall’amore che si esprime nel sacrificio di se stesso. Dall’amore crocifisso!

Ad Abelardo che, già a suo tempo, trovava ripugnante l’idea di un Dio che si “compiace” della morte del Figlio, san Bernardo rispondeva: “Non fu la sua morte che gli piacque, ma la sua volontà di morire spontaneamente per noi”: “Non mors, sed voluntas placuit sponte morientis” .
Il dolore di Cristo conserva tutto il suo valore e la Chiesa non smetterà mai di meditare su di esso: non, però, come causa, per se stesso, di salvezza, ma come segno e dimostrazione dell’amore: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rom 5,8). La morte è il segno, l’amore il significato. L’evangelista san Giovanni pone come una chiave di lettura all’inizio del suo racconto della Passione: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1).
Questo toglie alla passione di Cristo una connotazione che ha sempre lasciato perplessi e insoddisfatti: l’idea, cioè, di un prezzo e di un riscatto da pagare a Dio (o, peggio, al demonio!), di un sacrificio con cui placare l’ira divina. In realtà, è piuttosto Dio che ha fatto il grande sacrificio di darci il suo Figlio, di non “risparmiarselo”, come Abramo fece il sacrificio di non risparmiarsi il figlio Isacco (Gen 22, 16; Rom 8, 32). Dio è più il soggetto che il destinatario del sacrificio della croce!

Un amore degno di Dio

Adesso dobbiamo vedere cosa cambia nella nostra vita la verità che abbiamo contemplato nei misteri di Trinità, Incarnazione e Passione di Cristo. E qui ci aspetta la sorpresa che non manca mai quando si cerca di approfondire i tesori della fede cristiana. La sorpresa è scoprire che, grazie alla nostra incorporazione a Cristo, anche noi possiamo amare Dio con un amore infinito, degno di lui!
San Paolo scrive che: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rom 5,5). L’amore che è stato riversato in noi è quello stesso con cui il Padre, da sempre, ama il Figlio, non un amore diverso! “Io in loro e tu in me -dice Gesú al Padre- perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17, 23. 26). Notare: “l’amore con cui mi hai amato”, non uno diverso. È un traboccare dell’amore divino dalla Trinità a noi. Dio comunica all’anima –scrive san Giovanni della Croce – “lo stesso amore che comunica al Figlio, anche se ciò non avviene per natura, come nel caso del Figlio, ma per unione” .
La conseguenza è che noi possiamo amare il Padre con l’amore con cui lo ama il Figlio e possiamo amare Gesù con l’amore con cui lo ama il Padre. Tutto, grazie allo Spirito Santo che è quello stesso amore. Cosa diamo, allora, a Dio di nostro, quando gli diciamo: “Ti amo!”? Nient’altro che l’amore che riceviamo da lui! Nulla dunque, assolutamente, da parte nostra? È forse il nostro amore per Dio nient’altro che un “rimbalzare” del suo stesso amore verso di lui, come l’eco che rimanda il suono alla sua sorgente?
Non in questo caso! L’eco del suo amore ritorna a Dio dalla cavità del nostro cuore, ma con una novità che per Dio è tutto: il profumo della nostra libertà e della nostra gratitudine di figli! Tutto questo si realizza, in modo esemplare, nell’Eucaristia. Cosa facciamo in essa, se non offrire al Padre, come “nostro sacrificio”, quello che, in realtà, il Padre stesso ha donato a noi, e cioè il suo Figlio Gesù?
Noi possiamo dire a Dio Padre: “Padre, ti amo con l’amore con cui ti ama il tuo Figlio Gesù!” E dire a Gesù: “Gesù, ti amo con l’amore con cui ti ama il Padre tuo celeste”. E sapere con certezza che non è una pia illusione! Ogni volta che, pregando, cerco di farlo io stesso, mi torna alla mente l’episodio di Giacobbe che si presenta al padre Isacco per ricevere la benedizione, spacciandosi per il fratello maggiore (Gen 27, 1-23). E cerco di immaginare quello che potrebbe dire tra sé Dio Padre, in quel momento: “Veramente, la voce non è proprio quella del mio Figlio primogenito; ma le mani, i piedi e tutto il corpo sono le stesse che mio Figlio ha preso sulla terra e ha portato quassù in cielo”.
E sono sicuro che mi benedice, come Isacco benedisse Giacobbe! E benedice, tutti voi Venerabili Padri, fratelli e sorelle. È lo splendore della nostra fede di cristiani. Speriamo di essere in grado di trasmetterne qualche frammento agli uomini e alle donne del nostro tempo, che sono assetati d’amore, ma ne ignorano la sorgente.

1.H. de Lubac, Exégèse médièvale, I, 2, Parigi 1959, p. 670.
2.Gregorio Magno, Moralia in Job, Epist. Missoria, 4 (PL 75, 515).
3.Henri de Lubac, Histoire et Esprit, Aubier, Paris 1950.
4.Aristotele, Metafisica, XII,7, 1072b.
5.Duns Scoto, Opus Parisiense, III, d. 7, q. 4 (Opera omnia, XXIII, Parigi 1894, p. 303).
6.Aristotele, Metafisica, XII,7, 1072b.
7.Agostino, De Trinitate,VIII, 9,14; IX, 2,2; XV,17,31; Riccardo di San Vittore, De Trin. III,2.18; Bonaventura, I Sent. d. 13, q.1.
8.Bernardo di Chiaravalle, Contro gli errori di Abelardo, VIII, 21-22: “Non mors, sed voluntas placuit sponte morientis”.
9.Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, strofa 38, 4.