Raccogliamo idealmente anche noi quel filo di ricordi che Maria e Giovanni ci hanno lasciato, nel tardo pomeriggio di quel venerdì, quando Maria e il «discepolo che Gesù amava», identificato dalla tradizione con lo stesso evangelista, scesero dal Golgota, il promontorio roccioso della periferia dell’antica Gerusalemme. Di quelle ore tragiche il quarto evangelista ci ha lasciato una sua originale relazione che ha nella scena citata un cardine importante e che lo vede protagonista con la madre di Gesù. Cristo è stato ormai innalzato da terra sulla croce ed è alle soglie dell’agonia. È a questo punto che, «vedendo la Madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla Madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”» (19,26-27). Qual è il valore di questo atto estremo del Cristo che coinvolge, oltre a Maria, anche quel «discepolo amato» che poniamo sulla ribalta del nostro Venerdì santo?
È solo una raccomandazione, piena di amore filiale, indirizzata al discepolo più caro perché si incarichi del sostentamento e della protezione di Maria? Oppure sotto i dati realistici del racconto si nascondono significati misteriosi e spirituali? Le parole di Gesù sono solo un «testamento domestico», come scriveva sant’Ambrogio, o sono la rivelazione di una nuova maternità spirituale di Maria, come dichiarava in un’altra sua riflessione lo stesso vescovo di Milano e come hanno ripetuto Pio XII nell’enciclica Mystici corporis e san Giovanni Paolo II nella Redemptoris mater? L’affidamento di Maria a Giovanni è ricordato solo per ribadire la verginità di Maria, priva di altri figli a cui essere affidata, come volevano i Padri, da Atanasio a Ilario, da Girolamo ad Ambrogio? Oppure, secondo quanto scriveva Efrem siro, come Mosè incaricò Giosuè di prendersi cura del popolo ebraico in sua vece, così Gesù incaricò Giovanni di prendersi cura di Maria, cioè della Chiesa, popolo di Dio?
Ai piedi della croce secondo il quarto Vangelo sono presenti quattro donne: di tre conosciamo i nomi, Maria madre di Gesù, Maria di Cleofa e Maria di Magdala, della quarta è riferita solo la parentela, è la sorella di Maria e quindi la zia di Gesù. I Sinottici, però, introducono anche altre donne: Maria, madre di Giacomo, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, Giovanna… Spesso si permetteva ai parenti, agli amici e ai nemici di una persona crocifissa di seguire le ultime ore di quell’atroce agonia. Sappiamo, ad esempio, che un infame re ebreo della dinastia degli Asmonei, discendenti dei grandi Maccabei, aveva fatto crocifiggere i capi farisei di una rivolta contro il suo regime. Si trattava di Alessandro Janneo che regnò dal 102 al 76 a.C. Ebbene, egli aveva voluto che attorno alle croci dei condannati fossero raccolte le loro famiglie perché assistessero al supplizio e, così, i crocifissi vedessero il pianto disperato delle loro mogli e dei bambini, mentre il re, sotto un lussuoso padiglione, banchettava con le sue concubine.
Nella narrazione giovannea lo sguardo dell’evangelista si fissa, però, esclusivamente su due visi. Il primo, naturalmente, è quello di Maria, il secondo è quello del «discepolo che Gesù amava». È proprio su questo volto maschile che centriamo soprattutto la nostra attenzione. Si è discusso a lungo sull’identità di questo discepolo che è citato solo sei volte nel quarto Vangelo e soltanto a partire dalla passione di Cristo. Alcuni avevano pensato perfino a Lazzaro a cui Gesù «voleva molto bene», anzi, che Gesù «amava» (11,15). Altri erano ricorsi a Giovanni Marco, il cristiano discepolo di Paolo e di Pietro che aveva una casa a Gerusalemme (Atti 12,12) e che la tradizione identifica con l’evangelista Marco.
A margine, è necessaria una breve nota su un tema che ha generato una bibliografia sterminata e infinite dispute esegetiche. In sintesi, ricordiamo che il quarto Vangelo è il frutto di una lunga elaborazione. Essa ha il suo avvio con la predicazione orale di Giovanni l’apostolo e passa attraverso una redazione forse a più tappe (si vedano le due finali con la rispettiva aggiunta nei cc. 20 e 21). Il testo terminale scritto è opera di un “evangelista” che alcuni hanno identificato con lo stesso «discepolo amato», mentre per la maggioranza degli studiosi costui sarebbe lo stesso apostolo, presentato dall’evangelista.
Più semplice e spontaneo sembra, quindi, alla maggioranza degli esegeti il riferimento all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, tratteggiato sul Calvario dall’evangelista. Tuttavia l’espressione usata sembra avere una risonanza ulteriore. In Giovanni, il «discepolo che Gesù amava», si vuole quasi certamente rappresentare anche il ritratto del perfetto discepolo. Il titolo, allora, acquista un valore simbolico, come d’altronde spesso accade nel quarto Vangelo. Il teologo Max Thurian (1921-1996) nella sua opera Maria, Madre del Signore e figura della Chiesa (Morcelliana 1983), definisce questa figura come «la personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele del Cristo, del credente che ha ricevuto lo Spirito». L’evangelista sulla scena che si svolge ai piedi della croce vuole, dunque, ricamare un’immagine e un significato ulteriori che superano i confini di quel luogo e di quel giorno tragico.
Per cogliere questo rimando allusivo è decisiva l’analisi della doppia e parallela dichiarazione di Gesù: «Donna, ecco tuo figlio… Ecco tua madre». Non si tratta di formule d’adozione, come è stato ipotizzato da qualche studioso perché non ne ricalcano lo schema giuridico altrimenti noto: «Tu sei mio figlio…» (Salmo 2,7). È, invece, una formula di rivelazione simile a quella celebre del Battista nei confronti di Gesù: «Ecco l’Agnello di Dio!» (1,29). Non siamo, quindi, di fronte a un semplice atto testamentario pubblico che sfocia in un incarico del tipo: «Io ti lascio mia madre in custodia perché te ne prenda cura». Siamo, invece, davanti a una parola solenne che svela il mistero e il significato ultimo di una persona.
La prima «rivelazione» è indirizzata a Maria interpellata con uno strano: «Donna!». Questo termine, usato normalmente nel mondo ebraico e greco e anche da Gesù nei confronti delle donne, sembrerebbe un po’ stravagante se usato per la propria madre. Tuttavia, come accade anche durante le nozze di Cana, agli inizi della sua missione, Gesù aveva interloquito con Maria letteralmente così: «Donna, che cosa c’è tra me e te? [che cosa vuoi da me?]. Non è ancora giunta la mia Ora!» (2,4). L’«Ora», come è noto, è il momento della croce e della gloria che il Cristo sta ora vivendo.
Inoltre, il titolo solenne «Donna» può alludere, secondo il giuoco dei rimandi caro al quarto Vangelo, alla «donna» che sta alla radice della storia umana e al celebre passo della Genesi sottoposto dalla tradizione cristiana a una lettura mariologica: «Io porrò inimicizia tra il serpente e la donna, tra il tuo seme e quello della donna… L’uomo chiamò la donna Eva perché essa fu la madre di tutti i viventi» (3,15.20). La prima donna era stata l’inizio e la madre dell’umanità intera; ora Maria diventa l’inizio e la madre di tutti i credenti nel Figlio suo.
Maria appare ora nella sua nuova funzione materna, quella di essere la madre di tutti i fedeli, simbolo della Chiesa che genera nuovi figli e fratelli al Padre e a Cristo e li protegge dal drago del male, come si dirà in un passo dell’Apocalisse, almeno nella rilettura mariologica della tradizione cristiana (l’autore dell’Apocalisse forse allude alla Chiesa o alla comunità fedele del popolo di Dio): «Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il bimbo appena nato. Essa partorì un figlio maschio…» (12,4-5). La «donna» Maria, nuova Eva, sta quindi vivendo l’«Ora» del suo Figlio come sua «Ora»: il Cristo, soffrendo e morendo, genera la salvezza; Maria, soffrendo e perdendo tutto, diventa madre della Chiesa.
Infatti, la seconda dichiarazione di Gesù morente presenta a Giovanni, il discepolo amato, simbolo dei credenti, la sua madre spirituale: «Ecco tua madre!». È curioso notare che nella trentina di parole che compongono l’originale greco del brano giovanneo (19,26-27) per ben cinque volte si ripete il vocabolo mêter, «madre». In questa luce potremmo condividere l’interpretazione di sant’Ambrogio che vedeva in Maria ai piedi della croce il mistero della Chiesa e nel discepolo amato il cristiano, figlio della Chiesa. Nel profilo di Maria si intravedono i lineamenti della Chiesa che genera figli modellati sul Cristo.
Dopo aver ascoltato queste ultime parole del Cristo a loro riservate, Maria e il discepolo scendono dal Calvario. L’evangelista, però, ci lascia un’ultima, piccola indicazione riguardante i due attori della scena prima descritta: il discepolo «accoglie con sé» Maria. Questa annotazione è stata spesso interpretata come una semplice notizia di cronaca: il termine greco usato per descrivere questo «avere con sé» Maria da parte del discepolo amato è ìdia, che può significare anche «casa, proprietà, patria». È possibile, allora, intendere come fanno alcune versioni che il discepolo amato «prese nella sua casa» Maria.
Questa interpretazione, che è presente in sant’Agostino, in san Tommaso d’Aquino ma anche in un famoso esegeta come Marie-Joseph Lagrange (1855-1938), legge in tutta la vicenda e soprattutto nel suo sbocco finale una manifestazione di pietà filiale. Il figlio morente Gesù si preoccupa del futuro di sua madre e la affida all’amico più caro, il discepolo amato, perché se ne prenda cura come se fosse la propria madre. È fiorita da questa lettura la tradizione popolare secondo cui Maria avrebbe seguito Giovanni in Asia Minore e sarebbe morta a Efeso.
Ancor oggi a otto chilometri dalle celebri rovine di Efeso su un monte, in un bosco, si leva una chiesetta collegata idealmente alla residenza efesina di Maria e di Giovanni. L’ipotesi è, però, fragile. La stessa tradizione giovannea efesina può raccordarsi all’Apostolo in senso indiretto, ossia attraverso un riferimento al suo patronato, valorizzato dai fondatori di quella e delle altre Chiese dell’Asia Minore. Perciò, rimarrebbe più attendibile la tradizione gerosolimitana della morte di Maria attestata dall’attuale basilica ortodossa dell’Assunzione posta nei pressi del Getsemani.
In realtà, se noi scegliamo di continuare a conservare il valore di rivelazione di una missione nelle parole di Gesù rivolte alla madre e al discepolo e se ribadiamo la trama dei rimandi simbolici cari al quarto evangelista, ci accorgiamo che la parola greca ìdia può avere un altro valore. Nel prologo del Vangelo, infatti, il termine indica «i suoi», la sua gente, cioè il popolo a cui Gesù apparteneva: «Venne tra i suoi (ìdia), ma i suoi (ìdioi) non l’hanno accolto» (1,11).
E alle soglie della morte di Gesù Giovanni introduce il suo racconto così: «Sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi (ìdioi) che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine» (13,1). La frase che chiude la scena del Calvario è, allora, carica di una risonanza ulteriore: Maria e il discepolo non avranno tanto la stessa residenza (nota cronachistica secondaria), ma saranno tra loro in comunione di fede e di amore proprio come il cristiano che accoglie e vive in comunione profonda con la Chiesa sua madre. Cristologia, mariologia ed ecclesiologia si intrecciano, quindi, intimamente ai piedi della croce di Gesù. Per sintetizzare il valore delle parole di Cristo pronunciate sul Calvario ribadiamo che nel discepolo amato, l’apostolo Giovanni, si concentra il volto di tutti i credenti in Cristo, ossia la comunità ecclesiale, i figli generati appunto dalla Chiesa-madre, incarnata in Maria.
di Gianfranco Ravasi