Secondo il mondo, Cristo quel Venerdì santo fu sconfitto, secondo Dio egli fu vincitore. Coloro che lo condannarono a morte gli offrirono proprio l’occasione di cui egli aveva bisogno; coloro che chiusero con la pietra il sepolcro, gli offrirono proprio la porta che egli desiderava spalancare; il loro apparente trionfo aprì la strada alla sua suprema vittoria. Il Natale ha insegnato che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno si attendeva di trovarlo avvolto in fasce e posto in una mangiatoia.

La Pasqua conferma la lezione ripetendo che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno fra quelli del mondo si attendeva che uno sconfitto sarebbe stato il vincitore, che la pietra scartata dai costruttori sarebbe divenuta testata d’angolo, che colui che era morto, sarebbe ritornato a camminare e che, ignorato, posto in un sepolcro, sarebbe diventato la nostra risurrezione e la nostra vita. Nel giorno di Pasqua, io non intono il canto dei vincitori, ma quello di coloro che hanno subìto la sconfitta. Io canto l’inno dei vinti, quelli che caddero nella battaglia della vita, l’inno dei feriti, dei battuti, che perirono soccombendo nella mischia. Non il canto di giubilo dei vincitori, per i quali risuona l’acclamazione elevata in coro dalle nazioni, di quelli con la corona della gloria terrena sulla fronte, ma l’inno dei miseri, degli umili, degli esausti, di quelli dal cuore spezzato, che lottarono e persero, facendo con coraggio la loro parte, silenziosa e senza speranza.

La morte spazzò via il loro fallimento, tutto venne travolto eccetto la loro fede. Mentre il mondo, in coro, innalza il suo elogio a coloro che hanno vinto, io rimango nel campo dei vinti, nell’ombra, con i caduti, i feriti, gli agonizzanti, là recito sottovoce un requiem, poso le mie mani sulla loro fronte contratta dalla sofferenza, innalzo sommessamente una preghiera, tengo la mano impotente e sussurro: «Otterranno la vittoria solo coloro che hanno combattuto la buona battaglia, che hanno sbaragliato il demone che li tentava nel loro intimo, che hanno conservato la fede rifiutando di farsi sedurre da quei beni che il mondo stima così tanto; che, per una causa superiore, hanno osato soffrire, resistere, combattere e, se necessario, morire». Parla, o Storia! Chi sono i vincitori nella battaglia della vita? Scorri i tuoi annali e di’: sono quelli che il mondo chiama vincitori che conquistarono il successo effimero di un giorno? Sono i martiri o Nerone? Gli Spartani, caduti alle Termopili? O i Persiani e Serse? I suoi giudici o Socrate? Pilato o Cristo?

Srotola le pergamene del tempo ed osserva come la lezione di quella prima Pasqua Cristiana si ripete, quando, ad ogni celebrazione della Pasqua si raccontano le vicende di Cristo, del Nostro Grande Condottiero, che è uscito dal sepolcro per rivelare che la vittoria finale, quella definitiva, deve sempre essere intesa come sconfitta agli occhi del mondo. Almeno una dozzina di volte nel corso della sua storia bimillenaria il mondo, nell’impeto di un effimero trionfo, ha posto la pietra a sigillo sul sepolcro della Chiesa, vi ha posto la guardia e l’ha considerata come morta, esausta, sconfitta, solo per vederla risorgere vittoriosa nell’aurora della sua Pasqua.

Infine, la Pasqua ci offre una lezione che riguarda la nostra stessa vita.

È meglio essere sconfitti agli occhi del mondo, seguendo la voce della propria coscienza, piuttosto che essere vincenti secondo la falsa opinione del mondo; è meglio essere vinti nella santità del vincolo matrimoniale, che ottenere l’effimera vittoria del divorzio; è meglio essere vinti in mezzo a tanti figlioli, frutti dell’amore, che vincenti in un’unione volutamente sterile; è meglio essere vinti dall’amore della Croce, che conseguire l’effimera vittoria del mondo che mette in croce. In conclusione, è meglio essere sconfitti agli occhi del mondo, dando a Dio ciò che è interamente e assolutamente nostro. Se diamo a Dio la nostra energia, Gli restituiamo un Suo dono; se Gli diamo i nostri talenti, le nostre gioie, i nostri beni, Gli rendiamo ciò che Egli mise nelle nostre mani non per esserne proprietari, bensì semplici amministratori.

Una sola cosa c’è al mondo che possiamo definire veramente nostra, la sola che possiamo dare a Dio, che è nostra invece che Sua, la sola che Egli non ci toglierà mai; questa cosa è la nostra volontà col suo potere di scegliere l’oggetto del suo amore. Quindi, il dono più perfetto che possiamo offrire a Dio è quello della nostra volontà. Agli occhi del mondo, donarla a Dio è la suprema sconfitta che possiamo subire, ma è anche la suprema vittoria che possiamo conseguire agli occhi di Dio. Nel cedergliela ci sembra di perdere tutto, la sconfitta però è il seme della vittoria. La rinuncia alla propria volontà conduce a ritrovare tutto ciò che la volontà abbia mai cercato, la perfezione della Vita, della Verità, dell’Amore, cioè Dio.

E così, nel giorno di Pasqua non cantare l’inno del vincitore, ma quello del perdente. Cosa importa se la strada, in questa vita, sia ripida e disagevole, se la povertà di Betlemme, la solitudine della Galilea, le sofferenze della Croce siano il nostro pane? Mentre combattiamo, santamente ispirati da Colui che ha conquistato il mondo, perché mai dovremmo trattenerci dal manifestare la nostra sfida di fronte all’ipocrisia del mondo? Perché temere di estrarre la spada e assestare il primo colpo mortale al nostro egoismo? Marciando sotto la guida del Condottiero dalle cinque Piaghe, fortificati dai Suoi Sacramenti, resi incrollabili dal Suo essere Verità infallibile, divinizzati dal Suo Amore redentivo, non abbiamo alcun timore circa l’esito della battaglia della vita; nessun dubbio sull’epilogo della sola lotta che conta; nessun bisogno di chiederci se saremo vincitori o perdenti. Perché? Perché abbiamo già vinto – solo che la notizia non è ancora trapelata!

(Fulton J. Sheen, da “The Moral Universe”)