Per Paolo vivere nello Spirito e compromettersi con Cristo sono espressioni totalmente sovrapponibili. La santità, dunque, consisterà proprio nel lasciare spazio all’azione dello Spirito. Se per gli ebrei il <<santo>> era colui che osservava tutti gli oneri provenienti dalla circoncisione, per Paolo è santo il credente che consente allo Spirito di incidersi nel cuore con le sue ispirazioni e i suoi doni: «I veri circoncisi siamo noi, che celebriamo il culto mossi dallo Spirito di Dio» (Fil 3,3).

Il frutto dello Spirito. Paolo passa a elencare gli effetti della presenza dello Spirito nella vita di chi lo asseconda. Teniamo presente che questa opera spirituale oltre che frutto è anche testimonianza: come i miracoli di Gesù erano il segno certo dell’avvento del regno del Padre (cfr. Lc 7,18-23), così il frutto dello Spirito è per Paolo il segno certo della presenza del Risorto tra noi. Propongo anche qui una breve classificazione e interpretazione del passo.

  • Amore. È il primo frutto dello Spirito; in un certo senso potremmo dire che è l’unico frutto, in quanto rappresenta la fonte dalla quale scaturiscono gli altri. Se tutte le opere della carne sono riconducibili in ultima istanza all’egocentrismo, l’amore gratuito – in quanto espressione di un cuore estroverso – sarà l’azione principale della grazia in noi: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Esso rende operativa la fede (cfr. Gal 5,6) ed è l’apice di tutta la legge (5,14).

  • Gioia e pace. Sono le <<figlie>> gemelle dell’amore. Chi è chiuso a riccio non può possederle, perché l’uomo trova la soddisfazione ai suoi desideri più autentici solo nell’incontro con l’altro. Ugualmente è impossibile trovare pace per chi si guarda sempre allo specchio. Negli scritti paolini la gioia scaturisce dalla certezza della presenza del Signore anche in mezzo alle persecuzioni (cfr. Fil 3,1), mentre la pace è un dono che mette radici nel credente che si conosce perdonato e riconciliato con Dio (cfr. Rm 5,1).

  • Magnanimità, benevolenza, fedeltà. Questi frutti arricchiscono l’ambito delle relazioni. Forse sullo sfondo c’è il ricordo di come Dio abbia trattare il popolo d’Israele nel corso dei secoli: lui è magnanimo, paziente, verso i suoi eletti; benevolo nei confronti dei peccatori che si pentono; fedele alle sue promesse nonostante l’idolatria occasionale dei credenti. Chi ha conosciuto questi volti dell’amore del Padre, chi ne ha beneficiato, tramite lo Spirito può applicarli alle relazioni con i fratelli. Si avranno allora rapporti improntati alla pazienza che schiva la fretta e la voglia di cambiare gli altri, segnati da giudizi benevoli e mai definitivi o senza appello, rapporti caratterizzati da un’affidabilità personale che invita all’apertura e alla confidenza.

  • Bontà e mitezza. Abbiamo visto già come questi due tratti siano propri della personalità storica di Gesù. Buono e mite è il servo di Dio che non si scoraggia davanti ai peccati altrui o di fronte alla precarietà della vita, ma è capace per grazia di <<vincere il male con il bene>> che già lo abita (cfr. Rm 12,21). Mite è il cristiano, colui che non si vendica ma <<lascia fare all’ira divina>> (cfr. Rm 12,19), affidando i corrotti al giudizio misericordioso di Dio.

  • Dominio di sé. Con questo frutto dello Spirito fa la sua comparsa la celebre enkrateia, termine assente nei Vangeli. Essa è l’esatto contrario della dissolutezza. Per Paolo non è una semplice virtù che si acquisisce con l’esercizio, bensì un carisma donato da Dio (cfr. 1Cor 7,7). È il dono che ci rende capaci di indirizzare tutti gli affetti e i desideri verso un unico obiettivo, ovvero l’amore e il rispetto del prossimo. In alcuni codici antichi al dominio di sé segue la castità, come una specificazione ulteriore, a indicare che l’ambito più importante (e arduo!) per l’esercizio della temperanza è quello degli impulsi sessuali. Mi piace qui giocare sulle parole: in latino il contrario di casto e in-castus, da cui il nostro italiano <<incesto>>, termine che indica il rapporto intimo con un parente prossimo. Al di là degli atti specifici, l’incesto rivela un desiderio sessuale rivolto a ciò che è già conosciuto, a ciò che rassicura e che si preferisce rispetto al rischio dell’intimità con chi è fuori dalla propria cerchia protettiva. Di contro il casto autentico non è solo il continente (sarebbe troppo poco) ma colui che ha un amore che si spinge fuori dal giro, verso un prossimo che non si conosce e che non dà garanzie. Gesù era veramente casto perché ha lasciato il nido di casa (cfr. Lc 9,58) per praticare un amore senza limiti e ad alto rischio di ingratitudine. Il dominio di sé è al servizio di un affetto che lascia libere le persone senza mai costringerle in legami esclusivi o soffocanti.

  • Contro queste cose non c’è legge. La chiusura dell’elenco è bellissima per la sua profondità e sapienza pedagogica. L’Apostolo scrive che la legge di Mosè non è contraria a questi doni. Anzi, essa avrebbe dovuto portare i credenti a viverli. C’è però un significato più profondo, che si potrebbe rendere con una traduzione simile: <<su queste cose la legge non può nulla>>, nel senso che non si diventa amorevoli, buoni, pazienti, ecc., a forza di osservare regole, per quanto sante esse possano essere. Le norme e i programmi non rendono automaticamente migliori le persone, al più possono contenere i nostri comportamenti trasgressivi. Stesso discorso andrebbe fatto con onestà sopra gli itinerari formativi dei seminari: cosa ci proponiamo davvero quando li elaboriamo? Solo lo Spirito, che opera dall’interno dell’uomo, può renderci buoni. Penso sia molto importante insistere su questo punto per una corretta pedagogia evangelica; d’altra parte, il Padre ha mandato il suo Figlio Unigenito nel mondo perché – dove aveva fallito la legge di Mosè – potesse farcela il dono di vita nuova. Questo non è solo un principio di <<teologia della salvezza>>, ma vale anche per la storia personale di ciascuno di noi: non si diventa santi imitando dei comportamenti o seguendo dei programmi, ma si progredisce esclusivamente accogliendo e lasciando lavorare lo Spirito, che ha i suoi tempi, le sue regole, i suoi silenzi. Non si può forzare la crescita perché essa è nelle mani di Dio: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere» (1Cor 3,6). Noi possiamo solo formarci e formare alla duttilità e all’abbandono, aiutando le persone a diventare segugi dello Spirito e soldati obbedienti alle sue ispirazioni.

Le opere della carne elencate da Paolo sono quindici, i frutti dello Spirito (compreso l’amore che li origina) sono invece nove. La carne fa più rumore e sembra più forte: quindici fameliche iene contro nove candide colombe! In realtà l’Apostolo non vuole fare due liste antitetiche e perfettamente parallele (quindici vizi contro quindici virtù) ma suggerirci sottotraccia una verità importante: gli elenchi non combaciano perché la logica della carne non solo si oppone ma è totalmente diversa rispetto a quella dello Spirito. Carne e Spirito sono due avversari che hanno strategie incompatibili. Lo Spirito non sconfigge la carne perché ha lo stesso numero di soldati, quanto piuttosto perché – pur avendone meno – essi fanno corpo unico intorno all’amore. Al contrario la carne ha più soldati… ma nessuno li comanda! Anche qui facciamo conoscenza con un piccolo segreto della vita spirituale: non si migliora opponendo a un vizio la corrispondente virtù, ma contrapponendogli un desiderio forte e armonico di fondo. Ecco perché Paolo scrive: «camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne». «Non sarete portati», ossia perderete naturalmente il gusto per il disordine e l’inquietudine che la carne consegna: vi piacerà così tanto l’armonia della grazia che non sarete più attirati dal resto, o – come dice il mio padre spirituale – i desideri della carne <<moriranno per asfissia>>. Lo Spirito lavora per attrazione, non per contrapposizione. Se voglio uscire dall’alcolismo posso pure dirmi ogni mattina: <<oggi sarò sobrio!>>. Non concluderò nulla. Ma posso motivarmi a smettere perché capisco che il bere sta compromettendo il lavoro che mi piace tanto o le relazioni con i figli. Così è più probabile che ottenga risultati migliori. Per liberarci dobbiamo appassionarci!

Concludiamo la lettura di questo stupendo passo della Lettera ai Galati con una domanda: cosa fare per far crescere il frutto dello Spirito?

Prima di tutto bisogna usare le maniere forti con la mentalità carnale e gli atteggiamenti che ne derivano. Paolo stesso ce lo suggerisce: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5,24). La maggior parte di noi, leggendo questo versetto, avrà pensato alla mortificazione e alle opere di penitenza. Cose sicuramente buone. Ma l’Apostolo – come già visto – vede solo la croce di Gesù e non le <<croci>> quotidiane del discepolo. Crocifiggere la carne non è un modo di mortificare l’umano ma la conseguenza dell’essere vivi in Cristo. Come un servo fidato che abita in casa del padrone ne condivide le sorti, così il cristiano che appartiene al Signore condivide con lui la sua Commenta U. Vanni: «Non si tratta di crocifiggere il nostro egoismo, cercando sempre qualcosa di negativo. Il nostro egoismo è stato crocifisso con Gesù, insegna Paolo. Quindi, la crocifissione non è la nostra crocifissione, ma è la crocifissione di Gesù, alla quale ciascuno di noi partecipa. L’accoglienza, attraverso la fede, di Gesù morto e risorto per noi tende a distruggere il nostro egoismo». In sintesi: crocifiggere la carne vuol dire esibire a essa la sua vera carta d’identità, dando un nome ai propri desideri e alle proprie voglie (qualunque essi siano) – astenendosi sia dal negarle, sia dal sovrastimolarle dandogli subito corso – perché il Crocifisso le trasfiguri a suo tempo.

Il secondo passo è quello di lasciarsi seminare come un buon campo appena arato: «Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (Gal 6,8).