«La fede mi ha sostenuto quando è morto mio marito Gianni e mi aiuta ad usare cuore e mente senza “fare cavolate”. Perché Dio ci vuole felici», dice l’attrice che torna in tv come giudice in Tale e Quale show. Un’anticipazione da Credere 38, in uscita giovedì 14 settembre: l’intervista integrale a Loretta Goggi, tratta da un numero tutto da scoprire!
«Sa, ci tengo molto a fare quest’intervista». A parlare, dall’altro capo del telefono, è Loretta Goggi e, a tratti, la sua voce tradisce un po’ di emozione. Non è facile, per lei, parlare di fede. Raccontare questa parte di sé, così intima e delicata, vuol infatti dire parlare anche di un pezzo del suo cuore andato perduto: del marito Gianni Brezza, il suo grande amore, morto dodici anni fa. La sua scomparsa ha provato duramente la cantante, conduttrice e imitatrice, ma proprio la fede l’ha aiutata a non spezzarsi.
Si è rimessa in piedi, accettando l’invito di Carlo Conti a partecipare come giurata a Tale e quale show e, da lì, non si è più fermata: la ritroveremo dietro al bancone anche quest’anno, dal 22 settembre su Rai Uno. «Dio ci vuole felici», spiega Goggi, «ci invita a godere le gioie della vita». Ed è per questo che la cantante ci tiene a fare questa intervista: «Desidero raccontare la bellezza della fede e dimostrare che si può essere artisti e cattolici». E il fatto che lo faccia con la voce a tratti spezzata dalla commozione non è una contraddizione, come spiegherà lei stessa.
Riavvolgiamo il nastro e partiamo dall’inizio: come si è avvicinata alla fede?
«Grazie ai miei genitori: erano entrambi credenti, frequentavano i gruppi di preghiera ed erano molto devoti a Padre Pio. Ho quindi ricevuto un’educazione cattolica, che mi ha portato ad avvicinarmi a Dio. Poi, certo, come molti, crescendo ho attraversato un periodo di ribellione: ho “sbarellato” un po’, pensando che la religione mi impedisse di fare quello che desideravo. In realtà la fede ti impedisce solamente… di fare cavolate! È un’educazione a usare cuore e mente, riflettendo bene su quello che si sta facendo. Insegna il buon senso. Vero è che io, in amore, ho usato ben poco il cervello…».
In che senso?
«Beh, mi riferisco alla mia storia con Gianni: quando ci conoscemmo lui era sposato, con figli. Ma io percepivo chiaramente che il nostro era un grande amore. Quindi vissi quella storia e dovetti rinunciare a ricevere la Comunione. È stato pesante, mi spiaciuto molto ma sapevo di aver fatto una scelta ben precisa ed era giusto assumermene le conseguenze. La mia unica consolazione era sapere che ciò che mi teneva lontana dall’Eucaristia non era una cavolata qualsiasi, ma un grande amore».
Di solito chi si trova nella sua situazione si sente vittima di un’ingiustizia e tende ad allontanarsi, di riflesso, anche dalla Chiesa. È stato così anche per lei?
«No, ho continuato a frequentarla e ad andare a Messa. Probabilmente è stato grazie all’educazione ricevuta: la mia fede era molto radicata e poggiava su ragioni profonde. Mi pare di capire però che ora si stia dibattendo sulla Comunione ai divorziati, grazie anche a papa Francesco, e si è andati verso una direzione più morbida e misericordiosa».
Posso chiederle che ruolo ha avuto la fede nell’affrontare il lutto di suo marito?
«È stata decisiva. Avere fede e pregare non vuol dire essere sicuri del miracolo: vuol dire chiedere la forza di affrontare questa vita terrena, che è fatta di gioie e di dolori. Per me la religione è questo: il bastone della mia esistenza, sul quale mi appoggio per affrontare la giornata. Purtroppo mi capita di incontrare molte persone che hanno smesso di credere perché “ho pregato tanto ma mio marito è morto” oppure “ho chiesto aiuto a Dio ma si è ammalato comunque”. Ma la preghiera è un’altra cosa! Ecco, credo che bisognerebbe educare i ragazzi al vero valore della preghiera».
Crede nell’Aldilà?
«Sì. Non riesco a immaginarmelo ma so che esiste. Mi sembra impossibile che l’anima, i pensieri, le emozioni muoiano. C’è un Dopo e tutti noi dovremmo affrontare le nostre giornate pensando, un po’ più spesso, a quel che sarà. Personalmente… spero di meritarmelo, ma mica sono sicura! (ride, ndr). Ho la fortuna di fare il lavoro che amo e questo mi ha regalato tanta felicità, ma so bene che non è ciò che mi aiuterà ad arrivare in Paradiso».
Cosa serve quindi?
«Una spiritualità molto alta e una coscienza vigile. Che non vuol dire essere santi. Significa discernere e misurarsi, ogni giorno, con la propria coscienza. Il fatto che io sia famosa non implica che viva per forza meglio di un’altra persona che magari è sconosciuta, e fa un lavoro che non ama, ma che ha una pace nel cuore enorme, che arriva da ben Altro».
Lei è molto esigente con se stessa?
«Sì. So che dovrei essere più indulgente ma in realtà questa mia severità si è rivelata un valore aggiunto sul lavoro, perché mi aiuta a tenere i piedi per terra. È importante non credere di essere al massimo, bravissimi e insuperabili: soprattutto in una società come quella attuale, dove basta desiderare qualcosa per decidere di farla. È fondamentale avere la percezione del proprio limite. Personalmente mi ha sempre aiutato molto il confronto spirituale. Prima andavo spesso da padre Gianfranco: un frate cappuccino, che stava nella parrocchia vicino casa mia. Siamo ancora in contatto, anche se adesso lui vive nel Nord Italia, vicino Bergamo. Ci scriviamo di frequente. Pensi che lui è nato il 21 luglio (lo stesso giorno di mia sorella) del 1950 (il mio anno di nascita)! Ogni volta ridiamo molto per questa bizzarra coincidenza. Come le dicevo, ora però lui è distante quindi qui a Roma ho anche altri riferimenti spirituali: un paio ai Parioli e uno in zona Prati».
In cosa l’aiuta il confronto con i sacerdoti?
«Mi aiuta non solo come fedele, ma anche come donna e come artista. Ho avuto la fortuna di incontrare preti molto preparati, che hanno saputo guidarmi e consigliarmi per il meglio. A volte mi capita di pensare a chi non ha ricevuto la grazia della fede e mi rattristo molto per queste persone: vivere senza fede è come vivere senza speranza…».