Nonostante ci troviamo a vivere nel mondo del progresso, della globalizzazione, dello sviluppo tecnologico e delle conquiste sociali, paradossalmente sembriamo continuamente catapultati in un contesto di regressione di cui, nei recenti fatti di cronaca, riscontriamo le conseguenze.

Il primo episodio è la guerra che da quasi due mesi si combatte nella Striscia di Gaza. Essa viene a costituire il fallimento di una pace ideologica costantemente declamata dalla bocca di coloro che sono causa di violenza. E che dire della guerra in Ucraina? Pare essere caduti in una sorta di abitudine che ha quasi “normalizzato” le violenze che continuano ad abbattersi ferocemente in questa martoriata terra.

Il secondo episodio degno di attenzione è l’atto di violenza subito da un diciassettenne disabile nel Napoletano e, precisamente a Sant’Attimo. Connesso a quest’ultimo aggiungiamo quanto accaduto a Palermo e, cioè, il suicidio di un tredicenne vittima di bullismo a motivo del suo orientamento sessuale. Infine, ricordiamo la drammatica uccisione della giovane Giulia. Avremmo dovuto imparare dalla storia passata e diventare più sensibili ma, nonostante le “conquiste sociali” e i cambi di paradigma storici, l’uomo si ritrova a commettere gli stessi errori. La domanda che ci poniamo è: cosa accumuna i fatti di cronaca appena elencati? Sembra che ogni episodio di violenza abbia alla radice l’auto-affermazione di sé stessi. Mi si potrebbe obiettare che, in fondo, ogni essere umano è chiamato ad affermare sé stesso; tuttavia, quando ciò avviene a discapito dell’altro, financo a negarlo e a non riconoscerlo come volto “epifanico” o come aiuto per ri-scoprirsi dono, s’innesca un meccanismo di chiusura che spinge la persona a desiderare di possedere e dominare la realtà che porta alla negazione della dignità dall’altro. Per non parlare del fatto che il benessere ha portato a vivere in una sorta di inerzia o inettitudine che lascia l’uomo nell’attesa passiva di un salvatore che debba liberare gli indigenti, cambiare le sorti della famiglia, far cambiare la Chiesa, ribaltare il sistema economico di una città, di una regione, di una nazione e perfino del mondo intero. L’attesa di un salvatore è il modo migliore per sentirsi sgravati da ogni responsabilità.

Credo che per iniziare a ribaltare le cose sia necessario che imploda nel cuore di ciascuno una rivoluzione della tenerezza, un concetto che comprenderemo attraverso il Sal 103,13: Kəraḥēm ’āḇ ‘al bānîm riḥam Yhwh ‘al yərē’âw “Come è tenero un padre sui figli, così il Signore è tenero su coloro che lo temono”. L’uso del Sal 103 nel giorno dell’espiazione non sorprende in quanto, in tutto il Salterio non si trova una eguale dichiarazione di misericordia e perdono da parte di Dio. Il salmo celebra il perdono dei peccati per come il Signore lo aveva dichiarato a Mosè in quella che viene chiamata formula della grazia (cf. Es 34; Sal 103,7-8). Il salmista non fa altro che ricordare l’autorivelazione di Dio a Mosè (cf. Es 34,5), mentre dichiara l’amore del Signore per il suo popolo attraverso il perdono dei peccati; così facendo, l’autore non si limita a riprendere e riportare la formula della grazia dall’Esodo al Salmo, ma la applica al proprio contesto di riferimento, attualizzandola e indirizzandola al presente. L’accento è posto sull’atto d’amore di Dio per il suo popolo mediante cui l’iniquità svanisce come l’erba (cf. Sal 103,15) dinnanzi alla generosa misericordia di YHWH nei confronti dell’umanità (cf. Sal 103,15-16). A tal proposito, il critico letterario Flora affermava: «L’immagine della caducità umana e dell’effimera vita dell’uomo è espressa con tenerezza di paragone con le più belle e fugaci forme del mondo naturale […] Un paragone di uomo e di erba che non è meno fragrante di quello omerico sull’unico destino delle foglie e degli uomini».

Per quanto riguarda il v.13, esso appartiene alla seconda sezione in cui si celebra al contempo l’amore di Dio e la fragilità umana. Infatti, si può intravvedere come la misericordia di Dio nasca dalla conoscenza della radicale fragilità dell’uomo. Confrontata con la misericordia di Dio, l’auto-affermazione egoistica di sé è da temere perché mina a colpire l’amore di Dio che dal v.13 è definito con la radice rḥm “tenerezza” o “misericordia”. Come ben sappiamo, essa rimanda al grembo materno (cf. Gen 20,18; Es 13,2.12.15; 34,19; Num 3,12; 1Cr 2,44), un’immagine che si riferisce alla profondità psicologica dell’amore paterno di Dio connotato dalla dimensione materna. La radice rḥm è anche uno dei novantanove nomi di Allah, Al Rahim “il misericordioso”; inoltre, tutte le sure del Corano si aprono con l’espressione: Bi-smi ‟llāhi al-Rahmāni al-Rahāmi, “nel nome di Dio, il Clemente il Misericordioso”.

Se la misericordia o, preferirei dire, la tenerezza, è l’essenza stessa del Dio biblico e uno dei nomi del Dio islamico, dobbiamo ricordare che in quanto immagine e somiglianza di Dio, anche l’uomo è dotato di tenerezza. Il rimando della tenerezza alla maternità quale luogo generativo di vita implica necessariamente che la missione dell’uomo è creare spazi di vita: ciò si realizza nella relazione con l’altro e nel riconoscimento dell’altro come dono. In un suo articolo, Ariela Bohm dice che ogni essere umano ha come potenziale «la capacità di creare dentro di sé uno spazio di accoglienza per l’altro, spazio che, nello svolgersi dell’esistenza, potrà poi essere riservato tanto ad un eventuale figlio quanto ad un compagno, ad altri o ad una passione»

A partire da questo principio, non sono tollerabili né le guerre nel nome di Dio, né qualsiasi pretesa di possesso dell’altro. La tenerezza fa sentire com-partecipi delle gioie e dei dolori dell’altro, crea comunione, consente di vivere un amore incondizionato e senza pretese, un amore che non blocca le ali dell’altro ma gli lascia la libertà di spiccare il volo. Se Dio lascia questo spazio di libertà, chi è l’uomo per incarcerare la libertà?

L’aver dimenticato la tenerezza quale dimensione essenziale della teologia e dell’antropologia comporta l’homo homini lupus, dove nel nome di Dio si uccidono i fratelli, nel nome di sé si bullizzano i compagni e, non ultimo, si continuano a uccidere ex mogli o fidanzate. Se l’egoismo disumanizza e trasforma in bestie, la tenerezza disarma, vince l’odio, scioglie i cuori, dona uno sguardo positivo sulla realtà e fa sì che l’uomo diventi più uomo. C’è bisogno di una rivoluzione della tenerezza di cui lo stesso Gesù di Nazareth, mediante gesti e parole, si è fatto promotore. D’altronde la risurrezione ha avviato un processo inarrestabile di tenerezza e, per quanto ci sia una parvenza di rallentamento, il processo è esploso e arriverà al compimento definitivo. Ogni uomo ha il compito e la responsabilità di collaborare alla realizzazione definitiva della tenerezza. La tenerezza ha il grande potere di cambiare noi e gli altri.