Nihil caritate dulcius, «nulla è più dolce della carità»: sono parole di sant’Ambrogio nella sua opera De officiis. Le assumiamo come motto nell’atmosfera natalizia in cui siamo immersi. L’Incarnazione è, infatti, un grande atto d’amore, come lo stesso Cristo diceva a Nicodemo in quella notte gerosolimitana: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Giovanni 3,16). La riflessione che questa volta proponiamo sulla terza e suprema virtù «teologale» la affideremo a san Paolo. È lui a intonare il canto più intenso all’agápe, cioè all’amore-carità.

Lo possiamo «ascoltare» leggendolo nel c. 13 della Prima Lettera ai Corinzi. L’apostolo inizia col tratteggiare la persona carica di ogni dote umana e spirituale, ma vuota di amore. Il dono delle lingue – simbolo non solo di cultura, ma di capacità mistiche (tale è il senso profondo della locuzione «parlare in lingue») – diventa, senza la carità, il rimbombo di un gong o il frastuono del cembalo dei culti orgiastici pagani della dea Cibele. Tre doni altissimi come la profezia, la conoscenza spirituale e la fede capace anche di «trasferire le montagne», se privi dell’amore, sono uno zero. La stessa generosità eroica e il distacco dai beni, se non sono sostenuti dall’agápe, sono solo autoglorificazione o gesti eroico-spettacolari.

Il poeta spirituale brasiliano Paulo Suess ha così trascritto e attualizzato la prima parte dell’inno paolino: «Anche se parlassi la lingua di tutte le tribù viventi / e persino dei popoli scomparsi dalla terra e dalla memoria, / se non ho l’amore, / sono un trombone di gelida latta, un computer trilingue. / Anche se distribuissi tutte le mie scarpe e i miei viveri / per soccorrere il popolo scalzo e denutrito, / se non ho l’amore, / sono una delle tante cavie rivoluzionarie, / un cacciatore di farfalleo un poeta sognatore».

La seconda parte dell’inno è simile a un fiore i cui petali sono altrettante qualità della carità: magnanimità, bontà, umiltà, disinteresse, generosità, rispetto, benignità, perdono, giustizia, verità, tolleranza, costanza… È il corteo delle virtù minori che accompagnano l’agápe. Nel caso in cui quest’ultima si spegnesse, anche le altre virtù umane e religiose si eclisserebbero. Un grande poeta che abbiamo avuto la fortuna di avere come amico, Mario Luzi, lo affermava in modo lapidario: «La virtù, quando non giunge fino all’amore, è cosa vana».

A differenza del citato Suess, George Orwell, scrittore inglese, nel suo romanzo Fiorirà l’aspidistra (1936) aveva tentato un audace stravolgimento dell’inno paolino, purtroppo reale nella storia dell’umanità, sostituendo alla parola «carità» quella ben più pesante e antitetica del «denaro»: «Anche se parlassi tutte le lingue, se non ho denaro, divengo un bronzo risonante… Se non ho denaro, non sono nulla… Il denaro tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…». È un’amara esperienza che purtroppo incrociamo ogni giorno nella società.

Tanto altro dovremmo scrivere sull’amore, virtù che è nel cuore del cristianesimo. Esso è alla base di tante qualità umane e morali come la misericordia, l’amicizia, la solidarietà, la comunione fraterna, la condivisione dei beni, l’accoglienza dello straniero e dell’emarginato, la stessa giustizia. Come abbiamo fatto in apertura, lasceremo ora concludere a un celebre Padre della Chiesa, sant’Agostino che dichiarava: «Quale volto ha l’amore? Quale forma, quale statura, quali piedi, quali mani? Nessuno lo può dire. Tuttavia l’amore ha piedi che lo conducono alla Chiesa, ha mani che donano ai poveri, ha occhi coi quali si scopre chi è nella necessità, ha orecchi riguardo ai quali il Signore dice: Chi ha orecchi per intendere intenda».