Tra le varie e incessanti visioni e apparizioni mariane, oltre alla questione tutt’altro che marginale della veridicità, c’è una differenza radicale rispetto alla Maria dei Vangeli, ed è quella della sobrietà verbale. Nelle cosiddette «mariofanie» la Madonna parla ripetutamente, lo fa persino a puntate, quasi come in un programma televisivo o sui social. La Maria dei Vangeli parla solo sei volte per un totale di 154 parole greche (compresi gli articoli, i pronomi, le particelle), in 16 versetti dei testi di Luca e di Giovanni. È veramente un’essenzialità estrema, se si pensa che i due Vangeli in questione assommano 34.820 parole (Luca 19.404 e Giovanni 15.416).

L’unica volta in cui la madre di Gesù si esprime ampiamente è nella preghiera, ossia nell’inno del Magnicat che è composto di 102 parole. Gli altri interventi sono solo frasi brevissime, ed è significativo che la prima in assoluto, pronunciata nel momento dell’Annunciazione dell’angelo sulla sua maternità divina, sia una domanda: «Come sarà questo, poiché non conosco uomo?» (Luca 1,34). Avremo occasione nei vari quesiti che mi sono stati rivolti, e che ripropongo ai nostri lettori, di affrontare una delle frasi più difficili che ora lascio in sospeso. Mi permetto una considerazione personale. Giustamente nel 2019 una studiosa, Francesca Cocchini, ha pubblicato un volumetto intitolato Le sei parole di Maria. Presso la stessa editrice, le Dehoniane, l’anno dopo io ho proposto un altro scritto intitolandolo, però, Le sette parole di Maria. Muovendomi liberamente sulla scia di una tradizione antica, consideravo come parola di accoglienza anche il suo silenzio registrato da Giovanni quando, sulla croce, Cristo morente le disse: «Donna, ecco tuo figlio!» (19,26). 

Ora, in occasione della solennità dell’Assunzione, ci soffermeremo su una questione contestuale riguardante il Magnificat che tutti i fedeli ascolteranno proclamato nel Vangelo del 15 agosto. Tra l’altro, dobbiamo ricordare che nel pomeriggio di Natale del 1886, vagabondando per le strade di Parigi, l’agnostico Paul Claudel – che sarebbe poi divenuto uno dei maggiori poeti cattolici del ’900 – aveva varcato la soglia di Notre Dame. In quel momento si stava cantando il Magnificat nella liturgia dei Vespri e nella purezza del canto gregoriano. Per lo scrittore fu una folgorazione: «In quel giorno credetti con una tale forza di adesione, di elevazione del mio essere, con una convinzione e certezza… che non fu poi mai più scossa». 

La domanda che noi affrontiamo è semplice: Luca riferisce le parole di Maria o le mette in bocca un inno della Chiesa delle origini? La risposta degli esegeti è abbastanza comune. Certo, un nucleo originario essenziale è da assegnare a Maria che nelle prime righe sembra cantare da solista (si notino gli aggettivi e i pronomi di prima persona). Ma il testo così come ora è nel Vangelo di Luca (1,46-55), col suo palinsesto di rimandi biblici, è la testimonianza di una sorta di salmo dei cosiddetti ‘anawîm, «i poveri» del Signore, i giusti e i fedeli biblici tra i quali la comunità cristiana delle origini si iscriveva idealmente. 

Possiamo, così, anche noi – tutte le volte che recitiamo o cantiamo il Magnificat – associarci alla preghiera dei primi cristiani, tra i quali spicca la madre di Gesù. Con loro esaltiamo con fiducia il Signore e le sue sette azioni di salvezza verso i «poveri»: «ha spiegato la potenza, ha disperso i superbi, ha rovesciato i potenti, ha innalzato gli umili, ha ricolmato gli affamati, ha rimandato vuoti i ricchi, ha soccorso Israele».