«Guardiamoli come fratelli e sorelle maggiori», dice il prefetto del Dicastero delle cause dei santi alla vigilia del 1°novembre. «Compagni di viaggio, ci indicano la via della fede, della speranza e della carità»
«Amo ripetere questa frase: che la santità è motivata dalla speranza. E, a sua volta, la speranza è sostenuta da una santità realizzata. Non solo, bisogna ricordarsi che non c’è santità senza gioia. Anzi, la gioia è uno dei segni di santità, come spiega molto bene papa Francesco nella sua esortazione Gaudete et exsultate. E oggi, in questa che è “l’epoca delle passioni tristi”, abbiamo bisogno della testimonianza di persone che sanno donarsi senza depressioni e malinconie. Dove non ci sono sorrisi c’è sempre qualcosa che non va». Il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, spiega cosa significa essere santi attraverso alcune vite esemplari che ha scelto per il suo volume Compagni di speranza. Storie di testimoni capaci di futuro (Lev). Sette già canonizzate, tre di venerabili e due di beati, che «ci fanno capire come la fede ci aiuta a non farci soffocare dalla sofferenza».
Come li ha scelti?
«Sono figure emblematiche perché hanno vissuto le nostre stesse fatiche e rendono visibile che la speranza cristiana ha il volto di una persona che ti accompagna e ti porta con sé, cioè Cristo Risorto. Sono i nostri fratelli e sorelle maggiori. E ci indicano il cammino. Lo fa Giuseppe Labre, che ho raccontato per primo. Lui, che era il “vagabondo di Dio”, ha camminato tanto, sempre in ricerca, vivendo per strada. Quando vedo tanti senza tetto che dormono nei pressi di San Pietro, penso a lui come a un profeta. E poi ci sono altre figure, da Giuseppina Bakhita a François-Xavier Nguyên Van Thuân, alla famiglia Ulma… che hanno in comune, nonostante la diversità delle loro vite, l’essere capaci di indicarci la strada della preghiera, della carità e della gioia. Perché, torno a dirlo, Dio ama chi dona con gioia. Tutti questi testimoni ci insegnano che, in qualunque situazione – pensiamo al cardinale Van Thuân condannato ai lavori forzati e all’isolamento in Vietnam – la fede ci aiuta a saper gioire».
Anche Paolo VI?
«Soprattutto lui. Lo descrivono come una figura triste, ma invece papa Montini aveva un umorismo spiccato. A Castel Gandolfo raccontavano che, quando andava a trovarlo il cardinale Giulio Bevilacqua, si sentivano le loro risate a crepapelle per tutto il palazzo. Era un uomo di spirito; un giorno, per esempio, incontrando il ministro degli Esteri sovietico, accanito fumatore, gli aveva dato delle sigarette americane. Le cicche sono ancora conservate in Vaticano. Ma, a parte questi aneddoti divertenti, dobbiamo ricordare che, proprio in preparazione dell’Anno Santo del 1975, aveva scritto l’esortazione sulla gioia cristiana, Gaudete in Domino».
Quindi i santi non sono né tristi né disperati?
«Di san Vincenzo de’ Paoli, che è l’apostolo della carità, si diceva che se non fosse stato un santo sarebbe stato un buffone perché amava molto scherzare, prendere in giro le persone. E pensiamo anche all’allegria di san Filippo Neri. O ancora a san Tommaso Moro e alla sua Preghiera del buon umore. È una gioia semplice, autentica, non quella superficiale che ha bisogno di ingredienti sempre più forti e che, alla fine, ti porta alla disperazione. È ancorata a quella speranza che è fissata al cielo e che ci solleva verso l’alto».
Come si fa a essere gioiosi nelle situazioni difficili?
«Ce lo insegnano i nostri compagni di viaggio, i santi, appunto. Anche quelli di oggi. Penso a Pier Giorgio Frassati, che sarà canonizzato durante il Giubileo. È una figura bellissima e contagiosa, che ha generato altra santità con il suo esempio come stiamo vedendo da altre cause allo studio. Frassati era gioioso anche nel linguaggio, nel modo di porsi. E non pensava mai a sé stesso. Il suo ultimo gesto, prima di morire per una poliomielite fulminante, è stato dare a un amico un biglietto perché portasse delle iniezioni a un povero che ne aveva bisogno. “Dopo ti pagherò per quello che hai fatto”, gli scriveva. Non ha mai perso la speranza».
E Carlo Acutis?
«È una santità diversa, di un adolescente con le passioni della sua età, con una fede semplice, che però è molto attraente. Io gli sono particolarmente legato perché, pochi giorni dopo la mia nomina a prefetto del Dicastero dei santi, il vescovo di Assisi, Domenico Sorrentino, mi ha invitato a concludere le celebrazioni per la sua beatificazione. Sono andato e lì, davanti al suo corpo, mi è venuta in mente l’immagine di una icona che il Papa mi aveva dato, quella di un giovane monaco che prende sulle spalle un anziano. E così ho chiesto ad Acutis di prendermi sulle spalle per aiutarmi a vivere bene il servizio cui il Pontefice mi aveva chiamato».