Santo e pieno di gioia: il prete secondo Escrivá

Cent’anni fa, il 28 marzo 1925, san Josemaría veniva ordinato sacerdote. Una donazione completa di sé nel ministero che 3 anni dopo l’avrebbe condotto a “vedere” la santità dei laici nel mondo

Un’agenda sobria, che rimanda alla sconfinata riflessione di Escrivá sulla figura, la missione, la responsabilità del sacerdote (sul sito istituzionale un’ampia proposta di contenuti) come “custode” e amministratore dei doni sacramentali, dalla celebrazione della Messa alla confessione. Ne è un segno tangibile il modo in cui san Josemaría celebrava la Messa (ed esortava a farlo), con raccoglimento assoluto e vera commozione, sempre come se fosse la prima e l’ultima volta, insegnando ad attualizzare ogni volta la redenzione (perché «il sacerdote – chiunque egli sia – è sempre un altro Cristo») attraverso il modo stesso in cui ci si accosta all’altare, si “vive” la liturgia, si offre l’Eucaristia, sapendo che è anche del modo in cui il Signore viene reso presente dai sacerdoti che si nutre la fede della gente: «Dobbiamo stare in Cielo e sulla terra, sempre – disse nel 1975 per il cinquantesimo di ordinazione, tre mesi prima di morire –. Non fra il Cielo e la terra, perché siamo del mondo. Nel mondo e in Paradiso allo stesso tempo (…), immersi in Dio ma sapendo che siamo del mondo e che siamo terra, con la fragilità della terra: un recipiente d’argilla che il Signore si è degnato di utilizzare al suo servizio».