Perché seppelliamo i nostri cari? Tutto questo rispetto per un cadavere che senso ha? Nessun altro essere vivente lo fa, solo noi umani. La risposta non può eludere la dimensione religiosa o comunque la fede in una vita ultraterrena. È come se l’uomo — di ogni tempo, in ogni luogo — avesse il presentimento che la morte è solo un “passaggio”, non la fine ma un confine da oltrepassare. Del resto, la cultura dell’essere umano è iniziata con la sepoltura, con il culto dei morti, sottolineando che insieme al defunto venivano seppellite anche tante cose, oggetti che potrebbero servire per il passaggio.

Prima ancora che i greci affermassero la fede nell’immortalità dell’anima, prima ancora di Antigone che seppellisce e per questo finisce sepolta viva, l’uomo ad un certo punto ha cominciato a riconoscere un valore, una dignità al defunto arrivando a costruirgli dimore più sontuose di quelle dei vivi. Questo semplice fatto si pone come un enigma per la coscienza dell’uomo contemporaneo che, in Occidente, ha svolto un progressivo lavoro di rimozione della morte, anche a livello lessicale. Anche il gesto della cura e della sepoltura del defunto è stato rimosso e delegato ad agenzie specializzate ma resta il fatto che il culto, l’onore e la “venerazione” che gli uomini attribuiscono al corpo del morto è ciò che ci rende umani.

Il culto del morti non è solo all’inizio della cultura e della civiltà umana, non segnala soltanto una dimensione squisitamente dell’homo sapiens che si presenta sulla scena del mondo come homo religiosus ma rivela un altro aspetto della stessa fede: il legame e nella connessione tra tutte le generazioni, passate, presenti e future. Su questo aspetto ha riflettuto il giovane beato Federico Ozanam nel saggio filosofico del 1835 Del progresso attraverso il cristianesimo in cui osserva come «Il genere umano, nella sua esistenza terrena, si compone di una serie di generazioni che coprono, di volta in volta, la superficie del globo con una moltitudine vivente, per coprirla poi di una polvere sepolcrale. Se è qui tutto il suo destino, non si comprende l’unità misteriosa che è in esso, la sollecitudine provvidenziale degli antenati per la posterità, questo ricordo rispettoso e riconoscente della posterità per gli antenati, questi monumenti, questi libri, queste tradizioni mediante i quali coloro che non saranno più hanno l’ambizione di istruire coloro che un giorno saranno. Quando mai la previdenza degli animali più intelligenti si estese al di là, dei loro piccoli? Ma se tutto non finisce nella vita, se ogni generazione non lascia quaggiù le sue spoglie mortali che per entrare in un’altra esistenza, se a questo appuntamento solenne i primi arrivati devono attendere i più lenti e i più giovani raggiungere i più anziani; allora, tra questi esseri innumerevoli destinati a formare una società definitiva si capisce che esistano legami, si capisce che i primi abbiano abitato questa terra di passaggio pensando a quelli che dovevano venire dopo e abbiano lasciato per questi tende drizzate e solchi seminati; si capisce la genealogia dei secoli e l’unità del genere umano».

L’uomo è tale se si assume le responsabilità non solo per sé ma per chi lo ha preceduto e per chi seguirà. Ozanam sottolinea questo aspetto parlando di eredità: «Ci sono dunque due mondi: l’uno invisibile, che si rivela al pensiero come infinito ed eterno, verso il quale tutte le generazioni di uomini camminano in virtù di una comune vocazione, davanti all’immensità del quale tutti sono eguali, come sono della stessa età davanti all’eternità; l’altro visibile, finito, sottomesso alle leggi del numero, del tempo e dello spazio, che tutte le generazioni attraversano come un luogo di prove, ciascuna profittando di ciò che è stato fatto prima e lavorando a sua volta per la generazione che seguirà; ciascuna ricevendo, di volta in volta, un’eredità più grande e un compito più laborioso».

Mistero grande la morte che si intreccia fortemente con l’attitudine dell’uomo a creare racconti. La letteratura ha, nel suo cuore, qualcosa che a che fare con la morte, si può quasi affermare che la finitezza della vita, come nel racconto quotidiano della bella Shahrazàd delle Mille e una notte che sposta la morte sempre più in là, sia il motore stesso della narrativa.

Il protagonista del maggiore mito della poesia occidentale, Ulisse, è colui che torna dalla guerra, cioè dalla morte, per raccontare la sua storia. Questo è il motivo della narrativa, un uomo che dice all’altro uomo: ho visto in faccia la morte e sono tornato a dirvi che si può affrontare e attraversare.

Un romanziere “omerico” come l’americano Cormac McCarthy, morto il 13 giugno scorso a quasi 90 anni, nel finale di uno dei suoi romanzi più famosi, Città della pianura, fa dire a un personaggio queste parole: «La morte di ogni uomo fa le veci di quella di ogni altro. E poiché la morte viene per tutti, non c’è altro modo di placarne la paura se non amando l’uomo che fa le nostre veci. È passato di qui molto tempo fa. Quell’uomo che è tutti gli uomini, e che sta sul banco degli imputati al posto nostro, finché non arriva il nostro momento e tocca a noi starci al posto suo. Lo ami, quell’uomo? Onori il cammino che ha intrapreso? Sei pronto ad ascoltare ciò che ti narrerà?». I morti raccontano, ai vivi il compito di rispettarli, ascoltandoli.

di ANDREA MONDA