«Queste sono le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità. Ma di tutte più grande è la carità». È san Paolo che suggella così il celebre inno alla carità che egli ha intessuto nel c. 13 della prima Lettera ai Corinzi. Molti sanno che il vocabolo greco usato dall’Apostolo per indicare questa sorella maggiore delle tre virtù «teologali» è agápe: esso è diverso da quello comunemente usato nell’antichità classica, eros.

La differenza è significativa perché quest’ultimo è desiderio dell’altro/altra che rimangono però quasi un oggetto bello e attraente, mentre l’agápe è donazione reciproca libera e gioiosa. Ciò non toglie che l’eros (che va ben oltre la mera sessualità istintuale, come spesso si equivoca) possa alimentare e rendere fragrante l’amore. La dimostrazione più alta e affascinante è offerta dal Cantico dei cantici che è  celebrazione di un’esperienza d’amore integrale  che comprende anche un’armonia con l’eros e la corporeità, senza falsi pudori e senza sbavature pornografiche. Tuttavia la meta a cui il Cantico vuole condurre è quella dell’agápe, dell’amore di donazione, come è attestato dalle due «professioni d’amore» pronunciate dalla donna: «Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3), esaltazione di un dono reciproco e di una comune appartenenza. È questo l’apice del matrimonio nella sua essenza genuina e “miracolosa”, pronta a declinare nella vita il celebre appello di Cristo: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). Aveva ragione lo scrittore francese François Mauriac quando nel suo Diario annotava: «L’amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune».

Ritorniamo, però, alla virtù dell’agápe nella sua dimensione strettamente teologica. È, infatti, celebre la definizione duplicata presente nella prima Lettera di san Giovanni: «Dio è agápe, amore» (4,8.16). Il volto divino è, quindi, segnato da lineamenti amorevoli. Non per nulla dai profeti è rappresentato come uno sposo innamorato: pensiamo a Osea (VIII sec. a.C.) che, nei primi 3 capitoli del suo libro, rimanda alla sua esperienza di marito tradito ma sempre innamorato, per rileggere la storia dell’alleanza tra il Signore e Israele.

Dio, poi, appare come padre. È ancora Osea a ricordarcelo: «Quando Israele era giovinetto io l’ho amato… Io gli insegnavo a camminare, tenendolo per mano… Lo attiravo a me con vincoli di bontà, con legami d’amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1.3-4). Gesù ci invita a invocare Dio come abba’, padre, babbo, in un’intimità assoluta, come sarà ribadito da san Paolo: «Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abba’! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (Galati 4,6-7).

Isaia, però, aveva già fatto balenare un’altra dimensione divina, quella di madre, spesso attestata nell’Antico Testamento col termine rahamîm, «viscere materne», applicato al Signore per dirne la misericordia e la tenerezza. Ecco l’intenso soliloquio divino, presentato dal profeta: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece mai ti dimenticherò!» (49,15).