Anticipiamo la postfazione che lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt ha scritto appositamente per la nuova edizione de “Il Vangelo secondo Pilato” (pagine 208, euro 18,00), che va da mercoledì in libreria in coedizione tra e/o e Libreria editrice vaticana, come il precedente La sfida di Gerusalemme (2023). Il nuovo scritto posto a coronamento del romanzo (reso anche in una nuova traduzione dal francese da Alberto Bracci Testasecca) prende spunto proprio dal viaggio a Gerusalemme del quale il volume del 2023 è un resoconto autoriale. “Il Vangelo secondo Pilato” (uscito in Francia nel 2000 e da noi nel 2002 presso e/o) narra gli ultimi giorni di Gesù dalla sua prospettiva (nel Prologo) e dalle lettere di Pilato al fratello Tito. Schmitt dialogherà di questi temi al Festival biblico, il 9 maggio a Rovigo, nell’incontro “Parlavo solo d’amore e annoveravo migliaia di nemici” con il giornalista Andrea Tornielli, direttore editoriale del dicastero vaticano per la Comunicazione, e padre Antonio Spadaro, sottosegretario del dicastero per la Cultura e l’Educazione. L’autore presenterà il volume anche il 10 maggio a Milano e l’11 maggio al Salone del libro di Torino.
Rileggendo il romanzo ventiquattro anni dopo averlo scritto mi rendo conto che non cambierei una riga, eppure non mi trovo nella stessa posizione spirituale di allora. Il mio cristianesimo si è evoluto. E com’è stato inaspettato questo cammino spirituale che probabilmente ha in serbo per me ancora sorprese! Da principio abitavo nella casa dell’ateismo. In una Francia che si andava decristianizzando, il rifiuto di Dio impregnava sia la mia famiglia di non credenti che il mio ambiente intellettuale illuminista, e ancora di più imperversava all’École nor- male supérieure, dove studiavo filosofia sotto la guida di Jacques Derrida, e alla Sorbona, dove ho sostenuto la mia tesi di dottorato sull’enciclopedista Diderot, condannato e imprigionato nel XVIII secolo per i suoi scritti contro Dio. Soffrivo del mio ateismo? No, perché non avevo conosciuto altro, ero come un cieco che ignora i colori. Volevo uscirne? Assolutamente no, guardavo alla fede con sospetto, ci vedevo una compensazione facile, comoda e priva di valore di fronte all’angoscia esistenziale. Per farmi abbandonare l’ateismo c’è voluto il deserto, dove a ventotto anni mi sono perso sulle orme di Charles de Fou- cauld e, tra sabbia e stelle, ho ricevuto la fede nel corso di una notte mistica, un momento decisivo che ho raccontato nella Notte di fuoco.
L’esperienza sahariana mi ha reso credente, ma non cristiano. Il Dio incontrato nello Hoggar non era minimamente collegato a una religione, era semmai il Dio che tutte le religioni celebrano. Tornato in Francia mi sono messo a divorare avidamente testi mistici, cosa che mi ha fatto scoprire fratelli e sorelle nel mondo intero, in ogni epoca e in tutte le lingue. Ad avvicinarmi al cristianesimo è stata un’altra notte, quando a Parigi, nella mansarda in cui abitavo, ho letto i quattro Vangeli. Confesso che fino a quel momento ne avevo sentito solo qualche brano in occasione di cerimonie, fram- menti sparsi senza ordine né coerenza, come toppe su uno pneumatico bucato. Durante quella nottata preziosa e per sempre fondatrice ho letto i Vangeli uno di seguito all’altro, Matteo, Marco, Luca e Giovanni, così come avrei letto Platone, Proust o Dostoevskij. Alla fine ero sconvolto. Attraverso il destino di Gesù percepivo uno slancio inaudito: l’affermazione dell’Amore. Mi sembrava magnifico quanto impossibile. Amare tutti, amare il proprio nemico, amare gli esseri umani fino a morire per loro? A partire da quel momento sono stato preso in trappola, il racconto evangelico mi ossessionava, non mi mollava più. Per consuetudine da filosofo ho intrapreso un lavoro accanito su Gesù leggendo testi sia favorevoli che contrari al cristianesimo, da Pascal a Nietzsche, da Tolstoj a Renan, studiando la storia, il diritto romano e il diritto ebraico, addirittura consultando tesi di medicina sulla morte per crocifissione. Ci tenevo ad avere la mia personale opinione su una storia che da duemila anni ci appassiona.
In quel periodo ho scritto Il Vangelo secondo Pilato. Prendendo il rude prefetto romano come personaggio principale sceglievo un individuo esterno alla spiritualità ebraica, cosa che mi permetteva di rinnovare il punto di vista, ridare freschezza ad avvenimenti più che ripetuti e ritrovare la virtù dello stupore. Malgrado la sua rozzezza, Pilato si impone in quanto eroe filosofico. Reagendo a quegli strani eventi con la sola ragione, tenta di salvare la razionalità. Applica spontaneamente i precetti che Cartesio esporrà nel Discorso sul metodo: in presenza di un problema, azzardare un’ipotesi e verificarla fino a che non venga smentita dalla realtà. Così, confrontato alla Risurrezione, Pilato applica una procedura d’analisi basata sulla logica. Per prima cosa esclude la possibilità stessa della risurrezione: dal momento che Gesù è morto, quelli che sostengono di averlo rivisto devono per forza essere falsi testimoni. Poi immagina che sia tutta una messinscena organizzata da Erode, poi suppone che un sosia abbia preso il posto di Gesù. Quando le varie ipotesi vengono confutate dai fatti, e Pilato è obbligato a prendere in considerazione l’idea che Gesù sia ricomparso, decide che se Gesù è vivo significa che non è morto. Continuando quindi a negare il concetto di risurrezione, si consulta con il suo medico e ne conclude che in quelle poche ore sulla croce Gesù non ha avuto il tempo di morire. Sennonché i dubbi del medico, la testimonianza di Claudia e la propria esperienza con Giuseppe d’Arimatea all’interno della tomba lo costringono a riconoscere che Gesù è effettivamente deceduto. Esaurite le ipotesi razionali, Pilato si trova quindi di fronte a un mistero, ovvero un problema senza soluzione, un problema che mina il modo stesso di porre le domande, un problema che manda in frantumi la cornice della comprensione e mostra l’inadeguatezza o i limiti della ragione.
Che delusione! gemono alcuni. Che piroetta! Rimpiangono altri. Che meraviglia! Esclamo ogni volta io. A colui che desidera acquisire una certezza, la frase oppone un’affilata raffinatezza, «Tu l’hai detto», potentissima sia in senso filosofico che teologico. Tanto per cominciare esprime un precetto socratico, “Pensa con la tua testa, non ripetere, non ubbidire, liberati dalle influenze. Delibera!”. Gesù strappa l’individuo alla palude delle opinioni, delle ideologie e delle argomentazioni d’autorità, lo pulisce, lo lava e all’uomo spogliato e purificato, dotato della propria coscienza, chiede di cavarsela da solo. Poi la frase fa una distinzione tra il piano del sapere e quello del credere. “Ritenendo che io sia il messia stai esprimendo la tua approvazione, è una tua scelta e non una necessità intellettuale. Non troverai mai Dio in me come due più due fa quattro. Credere non va confuso con sapere”. Infine rimette il potere nelle mani dell’uomo. “Sei tu che credi, non io. Sei tu a decidere chi sono. Sarò grande se mi fai grande e piccolo se mi fai piccolo. Sta a te concepire un Dio all’altezza di Dio”. A lungo Gesù elude la questione della sua messianicità. Tuttavia, qualche settimana prima della Pasqua fatale, la fa sua, la rivendica, la afferma. Al Gran Sacerdote che urla «Sei il messia?» risponde «Lo sono». Secondo me la sua risoluzione si è consolidata in quella settimana a Gerusalemme. Scommette di essere il Messia. Ma il dubbio persiste fino all’ultimo…
In un momento di dubbio, rifiuto e sarcasmo di colpo ho sentito l’odore, il calore e lo sguardo di colui che avrebbe dovuto essere morto duemila anni prima, ma che con tutta evidenza respirava davanti a me. Quella grazia mi ha colpito e tramortito, poi me ne sono sentito debitore all’infinito. Incarnazione e Risurrezione sono due misteri che ho percepito in maniera organica. Non li ho capiti di più a livello mentale, perché appartengono alla sfera dell’incomprensibile, ma ne ho vissuto la conferma sperimentale nel corpo. Di conseguenza, da spirituale il mio cristianesimo è diventato carnale. Da adesione è diventato approvazione. Più che un rischio assunto dalla mia coscienza libera, la mia fede è diventata un consenso alla realtà. Pur avendo sempre la possibilità di resistere non ne ho più la scelta. Quand’ero bambino Gesù non era né Dio né un uomo, perché l’ambiente in cui vivevo negava sia la divinità che il Gesù storico. Oggi per me Gesù, Dio fatto uomo o uomo fatto Dio, è un evento paradossale inscritto nel cuore di un incontro, una realtà che percepisco, che consulto, che ringrazio e che mi indica la direzione. Decisamente, non sono più Pilato.