Si può condurre una vita religiosa e fervente senza credere alla parola del Signore, si può essere moralmente apposto senza amare nessuno. D’altra parte l’unico ateismo vero e irriducibile che i Vangeli conoscono è quello dei soldi che vanno a braccetto con la religiosità: il giovane ricco osservante della legge di Mosè non seguì Gesù che lo invitava <<perché possedeva molte ricchezze>> (Mt 19,22).
Ma andiamo per gradi. Dio ci lascia liberi di non fidarci, ma il non credere non sempre è il frutto di una riflessione seria. Non solo: a un attento discernimento scopriamo che anche dietro atteggiamenti religiosi può nascondersi il rifiuto più o meno consapevole di Gesù. Potremmo quasi parlare di gradazioni del non credere, che vanno dall’indifferenza al netto rifiuto, passando per una religione senza amore.
C’è un non credere indifferente, alimentato non dal rifiuto di Gesù, ma dal non porsi alcun tipo di domanda religiosa: quel che conta è solo ciò che ci passa oggi sotto gli occhi.
C’è un non credere sognante, proprio di chi in fondo in fondo, ma proprio in fondo, pensa che tutto sommato <<lassù ci sia qualcosa>>: professione di fede, quest’ultima, spesso accompagnata a una certa presunzione intellettuale, come se si facesse un favore alla divinità dicendo che essa c’è anche se non si sa bene come!
Il non credere ferito, sempre da rispettare, è invece quello di persone che hanno lasciato la Chiesa per motivi gravi e a volte insindacabili (c’è anche chi chiede di farsi cancellare dal registro di battesimo): il cattivo comportamento dei preti, il non essere stati accolti nella comunità cristiana ma semplicemente additati da lontano – pensiamo ai divorziati risposati, agli omosessuali, ecc… –; l’eccessivo interesse per l’accumulo di denaro, scandalo ben più vasto della pedofilia (che riguarda un numero ridotto di elementi). Certamente a queste persone è meglio offrire la propria amicizia paziente che coprirle di prediche sul fatto che non bisogna <<guardarsi intorno>> ma solo in alto: <<Dio non tradisce mai; l’uomo si sa, è quello che è>>! Discorso ipocrita, almeno finché non ci si convince che chi lascia può avere le sue buone ragioni.
Più serio e intrigante è quel non credere ferito e dolente, quasi racchiuso nel rammarico, di chi ha dovuto sopportare una situazione di sofferenza eccessiva, un dolore imprevisto, non avendo più la forza di convivere con un Dio che sembra non sentire ragioni e reclami: <<ho sperato nel Signore, ma il suo aiuto non è arrivato>>. È vero che a volte non si ottiene dalla preghiera perché si chiede male o perché si domandano cose non necessarie, ma è anche vero che in certe situazioni si mette seriamente in discussione l’interesse di Dio per coloro che soffrono, specialmente se innocentemente.
Ma più triste (e colpevole) è la situazione del praticante non credente, cioè di colui che vive e rispetta i comandamenti, osserva le pratiche religiose (o come si suole dire <<frequenta la chiesa>>) ma senza amare il Signore che dietro queste cose si nasconde e si fa presente. Il praticante non credente è l’uomo del sabato (cfr. Mc 2,23-28), della norma sganciata dal suo intento salvifico: si è persa la memoria della motivazione che ha visto nascere la legge, ma si continua ostinatamente e meccanicamente a eseguirla per il gusto di sentirsi a proprio agio. Quel che è peggio è che il praticante non credente si fida solo della sua capacità di osservare norme e stili di vita consolidati, impedendo allo Spirito di essere libero come il vento che, come nota Giovanni, offre la sua frescura ora qua, ora là (cfr. Gv 3,8). In tal modo il Figlio dell’uomo non è più signore del sabato, e quindi delle pratiche religiose, ma schiavo di esse, idolo senza forza di chi sottomette al suo perbenismo l’appello continuo alla conversione: si può essere preti fervorosi, sposi fedeli, cristiani attivi e responsabili in parrocchia senza essersi mai chiesti se Dio voglia qualcosa di diverso o di più dalla nostra vita!
Esiste, ci chiediamo allora, un non credere serio, non polemico o ideologico, che fa bene alla fede, che stimola domande intelligenti? Esiste un non credente sapiente che aiuti con i suoi dubbi l’uomo di fede a non sclerotizzarsi su posizioni già acquisite e impersonali?
Direi di sì, e l’Antico Testamento ne presenta uno: Qoèlet, maestro di sapienza le cui riflessioni sono giunte a noi attraverso un piccolo libretto risalente al III secolo a.C. San Girolamo raccomandava ai cristiani di leggere questo testo prima di passare a qualsiasi altro passo delle Scritture.
Qoèlet è un uomo posato, non polemizza con nessuno, ha rispetto delle istituzioni ma misura tutti con l’ironia di chi ha visto tante cose. Verso sera raduna i discepoli alle porte della città e dà inizio alla discussione, rivolgendo a sé e agli altri delle domande fondamentali, raccomandando, nello stesso tempo, di non dare risposte affrettate o superficialmente <<tradizionali>>. Ed ecco le frecce che Qoèlet lancia: la vita non è forse stanca ripetizione di cose destinate a finire? C’è qualcosa di nuovo sotto il sole di cui stupirsi e rallegrarsi? L’onesto e il sapiente muoiono in maniera più dolce del criminale o dello stolto? E infine, la domanda più importante: non è meglio godersi le gioie sane della vita, senza macerarsi l’anima, lasciando Dio ai suoi misteri? <<Distogli da me il tuo sguardo, Jhwh, che io possa respirare, prima che me ne vada e di me non resti più nulla>> (Sal 39,14), grida l’uomo stanco di combattere con i dubbi.
Chi non si è mai posto queste domande, in realtà non ha mai sofferto per la sua fede!
Ogni cristiano dovrebbe avere iscritto nel suo DNA un po’ di Qoèlet per evitare che Dio non gli parli più: egli non ha niente da dire a chi non si pone delle domande! Il nostro sapiente israelita ha la funzione di ricordarci che la fede non è un vestito preconfezionato da indossare quando ci si sente puliti e sicuri di sé, bensì uno stare davanti al Signore con tutta la propria storia, bella o brutta che sia, rivolgendo domande salutari e ben calibrate, domande mie, non di altri, non sentite al bar e ripetute come oracoli. Qoèlet ricorda inoltre al credente che avere fede non sempre, anzi quasi mai, coincide con l’avere chiari in testa tutti gli articoli del Credo: come diceva J.H. Newman <<mille dubbi non fanno una mancanza di fede>>!
Non è forse vero che la strada dello scetticismo e dell’ateismo pratico dei cristiani si apre spesso proprio davanti a chi per troppo tempo non si è lasciato inquietare almeno un po’ dal dolore degli altri, dai silenzi di Dio, da tutto ciò che nella vita non si risolve in un batter d’occhio? Come detto, Gesù si rammarica per l’incredulità di chi fa la fila per varcare le porte del Tempio, non per chi nutre dei dubbi e si mette in ricerca sincera del Dio lontano.